INIZIO DEL ROMANZO: IL PONTE DEL DIAVOLO

  • Autore dell'articolo:
  • Categoria dell'articolo:ARTICOLI
  • Commenti dell'articolo:0 commenti

1.

Una sera, all’inizio di un’estate calda e afosa, Rodolfo Chiaromonti tornò a Torino dopo una lunga e estenuante tournée.

Si era impegnato in una serie di concerti spettacolari, in varie città d’Italia, determinanti per la sua carriera di pianista. Finalmente, dopo anni di sacrifici, aveva riscosso un grande successo di critica e di pubblico, gli si erano schiusi inaspettatamente orizzonti nuovi di carriera, anche a livello europeo, constatò, con nuova fiducia in se stesso. Il suo improvviso trionfo nel mondo musicale pieno di ostacoli, aveva seguito un lungo tormentato periodo di angoscia.

Mentre guidava con piacere la sua Audi nera, la città al crepuscolo gli appariva sotto una luce nuova, più piena di vita di come se la ricordava. Attraversò le vie gremite del centro, i corsi ombreggiati da lunghi filari di platani. Osservò distrattamente la folla variopinta immobile ai semafori, mentre buttava con noncuranza la cenere di sigaretta fuori dal finestrino. Viali alberati silenziosi dividevano i palazzoni, nuovi e freddi, del grigio quartiere di Mirafiori. La morte sembrava attenderlo all’ombra dei tristi giardini condominiali. Era pervaso da una fosca malinconia.

Attraversò amareggiato il largo atrio con la portineria, dove abitava Anna, la sua ex moglie, separata da lui da due anni. Il palazzo si ergeva tetro davanti a uno squallido supermercato costruito di recente. Percorse un lungo corridoio buio, al pianterreno, illuminato da pallide luci al neon da obitorio. Lo colse un’inquietudine che crebbe ripercorrendo quei luoghi familiari. Si infilò frettolosamente in un soffocante ascensore rivestito da assicelle di metallo dorate. Una cupa sensazione gli tolse il fiato appena rientrò nella squallida abitazione che anni addietro aveva preso in affitto di malavoglia. Era tornato esclusivamente per vedere suo figlio Alberto, dopo mesi di lontananza. Ricordò, con una punta di rammarico, che fra pochi giorni avrebbero dovuto festeggiare il settimo compleanno del bambino e se ne era del tutto scordato. Mentre procedeva lento sul freddo pianerottolo, con le mani in tasca, ripensò alla fama e alla gloria con cui si era appena misurato, ma, con afflizione, si rendeva conto che quelle vanità mondane, non riuscivano più a soddisfare il suo animo inaridito. 

Sostò indeciso sulla soglia dell’appartamento, sperando di riconoscere la voce del bambino, ma dall’interno non giungeva alcun rumore. Si passò nervosamente una mano lungo il mento, dove gli cresceva una rigogliosa barba rossiccia, che aveva deciso di non tagliare più negli ultimi mesi. Suonò il campanello con ansia, la presenza di Anna lo urtava.

Lei si affacciò sull’uscio. Sembrava sorpresa di vederlo, anche se le aveva telefonato nel pomeriggio.

Era più pallida e sciupata dall’ultima volta che l’aveva incontrata quell’inverno, pochi giorni prima di Natale.

La donna come lui aveva trentasette anni e conservava sul volto emaciato le tracce di una lunga sofferenza fisica e morale, che le conferivano un fascino enigmatico. Il pallore diffuso sul volto le donava una bellezza spirituale, valutò con un fuggevole rimpianto, mentre sentiva riaffiorare le fiamme della vecchia passione, che era convinto di avere spenta per sempre.

Anna gli andò incontro esitante, ferma sulla soglia lo salutò con un sorriso freddo di circostanza, lo invitò ad accomodarsi in salotto su uno squallido divano rivestito di pelle scura. Non c’era calore nelle sue parole.

Alberto giocava nella sua stanzetta. Appena riconobbe la voce cupa e arrochita del padre, gli andò incontro con esultanza. Lui lo sollevò tra le braccia e gli sorrise, con affetto contenuto; la consueta ombra di dolore sparì per un attimo dal suo volto provato. Tra loro si sentiva un estraneo e un intruso.

– Come sei cresciuto, sei proprio un ometto! – esclamò con uno strano stupore, misto all’orgoglio paterno ferito. La propria voce gli pareva giungere da una distanza abissale. Era pervasa da una nota di tristezza e di rammarico e gli faceva ripensare, con inquietudine, al fallimento della sua vita coniugale.

Si intrattenne per un po’ a giocare col figlio, finché Anna lo rimproverò. Si era fatto tardi e doveva metterlo a letto. Alberto lo salutò e si diresse veloce verso la cameretta piagnucolando. Il pianista lo osservò allontanarsi nell’ombra amareggiato.

Anna, con un gesto nervoso, riempì due bicchierini da una bottiglia di liquore verde.

Rodolfo si sedette sul divano, accese una sigaretta e si guardò intorno pensieroso: ogni oggetto banale, ogni mobile insignificante, rappresentava per lui qualcosa di perduto e di enigmatico. Notò con disappunto che Anna, in quegli anni, non aveva apportato alcuna modifica all’arredamento scialbo e trasandato. La donna se ne stava seduta al tavolo da pranzo, in una pigra posa lasciva e provocante, con le gambe snelle accavallate, davanti a lui. Indossava una gonna beige attillata, sotto una camicetta bianca fuori moda, che la faceva apparire più matura della sua età.

Gli porse con delicatezza il bicchiere ricolmo, lo scrutò dritto negli occhi, inquieta e continuò a trattarlo rigidamente da estraneo.

– Ho l’impressione che sia passato un mucchio di tempo – sospirò il pianista, come parlando tra sé e sé.

– Già – annuì la donna con velata malinconia. Non osava domandargli nulla sul suo lavoro; ma aveva intuito che quell’uomo strano e solitario, dal volto pallido e scavato, doveva sentirsi molto giù. Lo trovò più invecchiato, fragile e insicuro di come lo ricordava. In passato era stata attratta dalla sua naturale spavalderia, ora del tutto scomparsa.

– C’è qualcosa che non va? – gli domando a un certo punto con distacco.

– Nulla – replicò Rodolfo infastido scattando in piedi di scatto.

Anna fissò distrattamente la parete bianca prima di afflosciarsi sul divano. 

– Ho letto sui giornali dei tuoi recenti successi – disse sorridendo in tono pacato, dopo aver vuotato il liquore verde trasparente a piccoli sorsi. Si accese una sigaretta e colmò altri due bicchierini fino all’orlo. Un fumo sottile e azzurrognolo saliva alto fino al soffitto color panna. Rodolfo si abbandonò a fianco a lei con un aspetto scoraggiato e scostò con una felina mossa voluttuosa i lucidi ciuffi di capelli neri che le ricadevano sul viso ombreggiandole le guance smunte. I suoi occhi scuri erano stanchi e arrossati ma lo scrutavano inquieti nella penombra e ardevano di vivacità.

Rodolfo all’improvviso si scansò da lei, con un impulsivo moto di disgusto. Ma che diavolo ne sai tu! Non sei mai riuscita a comprendermi! – la zittì in tono crudele, stringendo con la mano possente la fodera di un cuscino. – Domani mattina me ne andrò in montagna con Eva – annunciò in tono sgarbato – credo di aver proprio bisogno di lasciare la città, i suoi genitori possiedono una graziosa baita in un paesino sperduto sui monti, non lontano da Torino. Domani se ne andranno in Sardegna e ci lasceranno la casetta libera per tutto il resto dell’estate – continuò con sincero entusiasmo, – non vedo l’ora di arrivare lassù, finalmente me ne starò tranquillo per un po’, senza alcun contatto con il mondo -.

Mentre le parlava assorto nei suoi programmi, guardando fisso davanti a sé, l’ex moglie pareva ascoltarlo sovrappensiero. Lui, più disteso dopo quello sfogo, vuotò il bicchiere tutto di un fiato.

– Eva non vede l’ora di partire; – continuò meditabondo – come me del resto, è provata dalla tournée. Quell’infelice, con tutti i problemi che ha, mi ha accompagnato senza battere ciglio e mi è stata vicina tutto il tempo con pazienza – concluse con un’occhiata vacua.

Anna trasalì non appena sentì pronunciare il nome della sua amante, con cui Rodolfo l’aveva già tradita, prima di abbandonarla definitivamente, si oscurò in volto e si accigliò.

Rimasero per lungo tempo silenziosi e distanti, il ritmo silenzioso dei loro sospiri si spandeva nell’aria immota della stanza malinconica.

– C’è un vecchio pianoforte lassù nella baita e potrò esercitarmi. Lo farò per gioco, non voglio più fare grossi sforzi per un bel pezzo -, le disse a un certo punto, come per stuzzicarla.

Anna schiuse appena le labbra turgide, che mostravano due file di piccoli denti candidi e aguzzi, e lo contemplò avvilita.

  • – Non sarebbe una cattiva idea portarci Alberto per qualche giorno, sempre che la cosa non ti dispiaccia.  Ho bisogno di stare un po’ di tempo insieme a lui. L’aria di montagna gli farà bene: l’ho visto un po’ pallido e sciupato -.

– Per me non c’è alcun problema -, rispose riluttante,

– Mi pare una buona occasione per stare vicini, padre e figlio – constatò pensieroso – faremo insieme delle lunghe camminate nei boschi -.

Un velo di inquietudine in quell’istante  gli offuscò il volto spettrale, occhiaie profonde gli contornavano  gli occhi inquieti.

Il pianista si alzò e si allontanò fiaccamente, si avviò alla finestra e l’ammirò con aria smarrita: adesso Anna sfavillava di una bellezza tenue e delicata e la malinconia del suo viso sofferto contrastava misteriosamente con la sua grande forza d’animo: l’aveva lasciata sola e distrutta per correre dietro ai suoi effimeri sogni di gloria.

L’uomo spalancò la porta a vetri che dava sull’ampio terrazzo in ombra. Giù in basso, nella fosca oscurità, nel buio giardino che si estendeva di fronte al palazzo, crescevano i tronchi lisci di alberi malinconici che si smarrivano indefiniti tra quelli del parco retrostante, che con i loro lunghi rami ombreggiavano le brutture della via sottostante.

 

Il remoto rumorio del traffico risaliva dal corso vicino, il cielo plumbeo si era oscurato da poco. La terrazza era sommersa da una selva di piante verdi rampicanti che si intrecciavano in un groviglio disordinato. Quella sera l’aria afosa pareva irrespirabile e la calura di Torino era insopportabile. Si sporse un poco sul parapetto per cogliere una boccata d’aria fresca nella sera d’estate. Le serrande erano mezze accostate e l’appartamento angusto era soffocante, una coppia di minuscoli pipistrelli neri svolazzava nel buio intorno ai lampioni dorati.

La vita che si era lasciato alle spalle adesso gli appariva nel ricordo monotona e scialba, i giorni allora scorrevano lenti e inutili, uno uguale all’altro, cadenzati da fastidiose e inflessibili necessità quotidiane e familiari.

E’ tutto finito, sospirò con sollievo, come risvegliandosi da un terribile incubo.

Si rese conto che non vedeva l’ora di allontanarsi da quella casa angosciante. Si voltò lentamente, Anna era ancora immobile dietro al terrazzo, illuminata dalla fioca luce della lampada. Rodolfo intravide nell’ombra la stanzetta del figlio, in fondo al corridoio.Sull’uscio baciò Anna con trasporto su una guancia e discese a passi incerti le scale silenziose. 

Si infilò svelto nell’auto parcheggiata sul retro dell’edificio, nella strada buia, davanti a un supermercato che si stagliava plumbeo sotto la luna giallognola nella notte torrida. Dal parco alberato giungeva il vocio concitato di un gruppetto di zingari che bivaccavano stesi sulle panchine. Due ragazzini gli si avvicinarono, chiedendogli delle monete. Infastidito mise subito in moto e sfrecciò in gran fretta verso il centro. La città a quell’ora era quasi deserta.

 

Condividi:

Lascia un commento